Corso di formazione – aggiornamento “Lingua e cultura dei Rom abruzzesi”

Relazione del 12 aprile 2016 prof.ssa Paola Desideri. Ordinaria di didattica delle lingue moderne. Docente di didattica dell’Italiano L2. Presidente del corso in Mediazione linguistica e comunicazione interculturale. Quelle di seguito riportate sono solo alcune delle indicazioni didattiche della professoressa Paola Desideri: lo studio della cultura dei rom è il primo passo verso una inclusione produttiva. La professoressa ci ha chiesto di collaborare con l’università di Chieti-Pescara per approfondire l’osservazione e la ricerca sull’apprendimento dei bambini rom. La mail a disposizione di tutti i docenti per avviare la collaborazione è: [email protected]

Il romanes, ovvero la lingua come patria: riflessioni glottodidattiche.

L’uso del romanés a scuola al fine di una valorizzazione della cultura e dell’identità rom, ha trovato opposizione soprattutto dagli zingari perché la loro lingua ha forte valenza criptica ed è una forma di difesa, e consegnare ad una struttura gagé (non rom) l’elemento fondamentale della propria identità appare come un tradimento, anche perché la scuola non ha mai mostrato alcuna considerazione per la cultura “diversa” di cui essi sono fedeli custodi.

Di qui la necessità da parte degli insegnanti di acquisire almeno i primi fondamentali rudimenti della cultura e della lingua romanì, tramite cui realizzare un’interazione comunicativa con gli alunni rom. La positiva conseguenza glottodidattica sarebbe almeno duplice: l’acquisizione di una consapevolezza del valore della propria lingua, sottoposta ad attività di riflessione critica, e un migliore apprendimento dell’italiano L2 quale codice linguistico necessario per una comunicazione appropriata con l’ambiente esterno. Del resto l’attenzione verso la propria madrelingua è di primaria importanza; infatti il riconoscimento identitario del patrimonio antico trasmesso dalla propria parlata alloglotta (parlata da gruppi ristretti di popolazione per motivi storici) equivale al riconoscimento identitario della propria cultura nomade.

Ma va subito chiarito che la fase metalinguistica non deve essere mai separata dalla fase espressivo-comunicativa. La riflessione linguistica deve nascere sempre da un’espressione concreta, senza bloccare la prosecuzione del processo comunicativo. Il bambino zingaro infatti non ha preso coscienza di quali siano i modelli di comportamento che la sua cultura esprime, perché non vengono mai enunciati chiaramente: nessuno spiega al bambino il ‘cosa’ ed il ‘perché’. Egli spesso imita il più grande con cui si relazione che non è un adulto. Per i bambini rom, legati come sono all’immediato, al contingente, all’impressione, risulta una attività ardua l’analisi, la generalizzazione, l’astrazione, il trasferimento  delle conoscenze in una situazione sconosciuta. Nella società rom il bambino impara vivendo con gli altri, ascoltando e nel fare accanto ed insieme agli altri, spinto dalla naturale curiosità di conoscere e di sperimentare per diventare un uomo o una donna patvalé (onorati).

Ricerche condotte negli anni settanta e ottanta evidenziano che:

  1. Il ritardo medio di un alunno zingaro nel rendimento scolastico è di circa due anni in confronto ai parametri logico-cognitivi occidentali di riferimento.
  2. Uno sviluppo intellettuale pressoché sistematico si realizza fino all’età di circa 10-11 anni, cui segue però una fase involutiva.
  3. Il gruppo dei bambini rom nomadi è nettamente superiore nei risultati dei test rispetto ai sedentari.
  4. Lo scolaro rom è incapace di seguire un discorso anonimo, cioè rivolto a tutta la classe, dimostrando scarsa capacità di prestare attenzione e di esprimersi verbalmente.

Le difficoltà registrate sul versante pragmatico-comunicativo e particolarmente dannose ai fini della buona riuscita delle complesse fasi dell’alfabetizzazione. Si tratta di:

  1. Difficoltà nella coordinazione visivo-motoria, con insufficiente capacità di guidare la motricità del polso e della mano e di coordinare il movimento con la percezione visiva.
  2. Difficoltà nell’orientamento spaziale, nelle lateralizzazione e nel possesso dello schema corporeo. La limitata focalizzazione del segno linguistico, associata a modeste stimolazioni visiva attraverso la carta stampata, produce un’alfabetizzazione molto problematica.
  3. Difficoltà nella comprensione e produzione linguistica, in ragione del fatto che il pensiero dell’alunno rom è, per sua natura, implicito e globale.

Diverse esperienze didattiche dimostrano che prima di intraprendere qualsiasi attività scolastica, si debba sempre accertare con mirati test quale sia l’effettivo possesso di prerequisiti ed abilità di base per poi verificare periodicamente i miglioramenti ottenuti. Inoltre nei bambini rom si è spesso rilevata una serie di componenti psicocognitive quali scarsa concentrazione, attenzione superficiale, labilità di memoria, insicurezza e tendenza alla rinuncia. Per l’insegnamento della lettura e della scrittura si ritiene sia più rispondente alle competenze linguistiche e alle capacità logiche il metodo fono-sillabico piuttosto che il metodo globale, che invece richiede l’acquisizione previa di alcune capacità di identificazione e di costruzione lessemantica, di cui gli alunni zingari sono decisamente privi.

( Paola Desideri:”Il  romanès, ovvero la lingua come patria: riflessioni glottodidattiche”. in: Minoranze linguistiche. Prospettive, strumenti, territori. A cura di Consani e Desideri. Carocci editore Roma 2007. L’intero estratto dal libro è a disposizione di chi ne farà richiesta a Gabriella Di Cioccio secondaria di I grado L. Marini.)

Prof. Gabriella Di Cioccio

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